Di felliniana memoria…

Non avrei mai pensato che sarei diventato un aggettivo”

Federico Fellini

Rocca Malatestiana

Cinema e Romagna, un connubio di vecchia data che da sempre accompagna la produzione italiana del grande schermo, luoghi noti e meno noti ma che tutti conosciamo grazie a registi che si sono cimentati nel girare film diventati storici. La terra di Romagna e della sua modaiola Rimini sono tuttavia legati ad un solo grande nome: Federico Fellini

Rimini conserva un grande cuore culturale, che batte sin dai tempi degli antichi Romani e che attraverso i secoli è giunto a far battere anche quello del piccolo Federico nato il 20 gennaio del 1920. Una città ricca di vestigia, spazi museali e culturali e che il futuro regista avrebbe reso immortale in Amarcord (Mi ricordo in dialetto romagnolo!)  valendogli anche il premio Oscar nel 1975: “la nascita di questo paese si perde nella notte dei tempi…comunque la prima data certa è il 268 a.C. quando divenne colonia romana e punto di partenza della via Emilia” così esordisce il personaggio dell’avvocato in una scena del film. Tuttavia davanti a quella pellicola non riconoscerete i veri luoghi cittadini, perché l’immaginario apparteneva allo stile felliniano e immaginaria è la Rimini che lui ci racconta. Gli anni ‘30 della sua giovinezza, degli amici e tutti quei personaggi che popolavano la realtà romagnola di quei tempi. Nemmeno un metro di pellicola venne girato in città, come lui stesso disse “una dimensione della memoria”. La città venne completamente infatti ricostruita a Cinecittà, in una dimensione onirica fatta di ricordi che vanno dal Grand Hotel al cinema Fulgor, da piazza Cavour al porto fino a Borgo San Giuliano. Partiamo!

Per questa occasione vi suggerisco innanzi tutto di noleggiare, presso una delle tante rimesse, una bella e comoda bici da città per sognare alla scoperta della…felliniana memoria. 

Potete iniziare da quel vuoto aperto del mare, come lo definiva il maestro, l’Adriatico in cui almeno una volta nella vita tutti quanti abbiamo  bagnato i piedi.  E’ sulla lunga costa riminese infatti che sono sorti i primi stabilimenti già nel lontano 1848 permettendo ai più fortunati di trascorrere giornate dedicate ai bagni di sole. No, non è un errore, i bagni erano fatti per coloro che volevano esporsi ai curativi raggi e non all’acqua salata. Oggi distese colorate di ombrelloni, cabine di legno e chioschi di piadina punteggiano il profilo della costa. Impossibile non guardare l’orizzonte senza chiedersi se veramente il mitico transatlantico Rex sia passato qui davanti come nella bellissima sequenza notturna di “Amarcord”.

A questo punto però vi invito per un attimo a distogliere lo sguardo dal blu, voltatevi e scorgerete un edificio elegante, grigio e molto imponente è Il Grand Hotel simbolo della Dolce Vita riminese: il mitico luogo dell’immaginario felliniano per eccellenza. Luogo simbolo della città marittima, inaugurato nel 1908 è divenuto poi famoso nel mondo grazie alle indimenticabili sequenze di cui Fellini esaltava il fascino e le atmosfere da sogno. Eletto monumento nazionale nel 1994, sorge in un’area verde di pini e lecci in cui si trova la nota Fontana dei Quattro Cavalli. L’elegante facciata Liberty  sembra ancora fungere da sipario alle numerose storie e leggende di ospiti illustri i quali soggiornandovi alimentavano i sogni di un giovane ragazzo che sbirciando dal cancello ammirava incantato la vita lussuosa che vi si conduceva all’interno. “(…) Gli giravamo attorno come topi per darci un’occhiata dentro; ma era impossibile”. A quell’età ancora non sapeva che quell’incanto sarebbe diventata la sua dimora privata nei lunghi soggiorni riminesi.

GrandHotel di Rimini

Dal Grand Hotel di Rimini pedalate adesso in direzione delle traverse che collegano il lungomare e vedrete che portano tutte i nomi dei film di Fellini, sono ben Ventisei e tutte nel cuore della Marina di Rimini a cui va aggiunta la via dedicata a Giulietta Masina.

Scorcio

A questo punto sarete arrivati nel cuore del centro storico di Rimini, l’antico foro romano è oggi Piazza tre martiri, ma venendo dal mare e dalla stazione, altro luogo caro al piccolo Federico che si divertiva a veder partire i treni per Roma, avrete incontrato il Tempio Malatestiano. E’ questo considerato la cattedrale di Rimini, che deve la sua luminosa facciata bianca incompiuta al genio di Leon Battista Alberti, capolavoro rinascimentale e tempio laico esoterico con tanti simboli al suo interno. Quasi davanti al Tempio si trovava la bottega “Febo” aperta da Fellini insieme al pittore riminese Demos Bonini in cui i due lavoravano realizzando caricature.

Tempio Malatestiano

Adesso dal centro della piazza voltate lo sguardo alla vostra sinistra e ve lo troverete imponente davanti, è l’Arco di Augusto, uno dei simboli della città, costruito in pietra d’Istria nel 27 a.C. in onore di Cesare Ottaviano Augusto punto d’incontro tra la via Flaminia e la Via Emilia. Da qui inizia ancora oggi, come ai tempi del giovane Fellini, la via delpasseggio cittadino, “fatto di ammiccamenti, brevi risate (…) due correnti a senso inverso che si rincorrevano”.  Al civico 115 troviamo un palazzo signorile in cui il maestro visse con la famiglia prima di trasferirsi a Roma nel 1939. Dove invece oggi trovate il Caffè Turismo una volta c’era il bar da Rossini, luogo dove Fellini andava a giocare a boccette con gli amici.

Tornate adesso sui vostri passi e arriverete in Piazza Cavour dove nel Medioevo la vita cittadina trascorreva e dove oggi troviamo la scalinata esterna di Palazzo dell’Arengo e la Fontana della Pigna, entrambe elementi scenici ricorrenti nella produzione cinematografica del regista.

Sul lato sinistro della piazza sorge invece la Vecchia Pescheria, che con i suoi archi e i suoi lunghi banchi in pietra d’Istria, è il luogo dove un tempo le donne vendevano le vongole, o megliole “poverazze” come le chiamano i riminesi. A questo punto vi suggerisco di mettere via la cinepresa, parcheggiare la bicicletta, chiudere la catena e imboccare a piedi i vicoli retrostanti per trovare posto in uno dei numerosi localini tipici. Qui come in un’immaginaria Trastevere riminese avrete modo di sbizzarrirvi nel testare la piadina romagnola farcita, i taglieri e un buon calice di sangiovese!

Fontana in Piazza Cavour

Ripresa la vostra bicicletta passate davanti al Teatro cittadino, inaugurato nel 1857 da Giuseppe Verdi, il 4 novembre del 1993 venne allestito come camera ardente per dare l’ultimo saluto a grande maestro. Subito dietro il teatro un altro luogo storico della città Castel Sismondo, fortezza del XV secolo che si staglia maestosa in piazza Malatesta e prende il nome da Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini. Fellini da piccolo andava a veder il circo nel piazzale del castello, lo stesso che troviamo ne “I clowns” dove il grande tendone viene montato davanti alla fortezza riminese.

Siete giunti a metà strada della vostra immaginaria passeggiata felliniana e non potete certo mancare il mitico Cinema Fulgor “il luogo dove da piccolo scoprii i film”. Quando il suo lavoro di caricaturista iniziò ad andare bene, Federico sognatore propose al gestore del Fulgor caricature degli attori dei film in programmazione da usare come locandine pubblicitarie in cambio di ingressi gratis.

Nuovo Cinema Fulgor

Nato nel 1914 e dagli anni Venti collocato nell’attuale palazzo Valloni, nel 2018, dopo cinque anni di lavori, il cinema è stato riconsegnato a Rimini e ai riminesi completamente restaurato in uno stile “hollywoodiano–romagnolo”. Merita una visita per scoprire l’ ingresso dai colori caldi, con volute di legno incurvato, listoni di ottone lungo le pareti e una sinuosa e bellissima scala che ricorda le curve della Gradisca salendo in galleria.

Antico Cinema Fulgor

Lasciato il cinema, si arriva al bellissimo Ponte di Tiberio, imponente opera architettonica romana, costruita in pietra d’Istria tra il 14 e il 21 d.C. dall’Imperatore Augusto e dal suo successore Tiberio, che segna il punto di partenza della via Emilia e della via Popilia.

Prima di attraversalo vi consigliamo di scendere dalla bicicletta e costeggiare a piedi la “piazza sull’acqua” che permette di godere di una visione frontale del Ponte: le sue cinque arcate in stile dorico riflesse nell’acqua, specie al tramonto vi regaleranno uno spettacolo incredibilmente suggestivo!

Siete ormai giunti a termine dell’itinerario onirico e non potete meglio concludere in uno dei luoghi più affascinanti e più felliniani della città: Borgo San Giuliano. Un quartiere storico un tempo abitato da pescatori, marinai e piccoli artigiani e composto da stradine, piazzette e vicoli in cui si respira un’atmosfera d’altri tempi. Ma oggi i suoi vecchi muri scalcinati e l’aspetto povero sono stati cancellati con meravigliosi colori dalle tonalità pastello, sono quelli dei murales ispirati ai film di Fellini e ai suoi personaggi, pellicole come “La dolce vita”, “La strada” e “8½” e personaggi indimenticabili come quelli di Marcello Mastroianni, Giulietta Masina, Roberto Benigni e la Tabachéra.

Ponte di Tiberio

Tutto è curato, dai graziosi portoncini delle abitazioni alle finestre colme di fiori. Un crocevia di viuzze e piazzette dove scovare ristoranti, cantine e vecchie osterie e fermarsi, vista l’ora, per un aperitivo smaliziato da gustare con specialità romagnole.

Federico Fellini e Giulietta Masina riposano assieme nel cimitero cittadino sotto la grande prua, scultura in bronzo realizzata da Arnaldo Pomodoro in omaggio al regista e all’amata moglie.

Murales a Borgo San Giuliano Rimini

Al fresco ristoro dei giardini di Ravenna

“Il luogo migliore per trovare Dio è in un giardino. E’ là che si può scavare per trovarlo.”

George Bernard Shaw

1321 – 2021 sono 700 anni che il nostro grande Sommo poeta Dante Alighieri ha lasciato questa terra per recarsi in luoghi probabilmente a lui più noti, tanto ne scrisse in vita! A Ravenna siamo pronti per celebrarne in maniera particolare la dipartita e gli anniversari. La sua tomba bianca e immacolata ha dato nome a quella parte della città chiamata luogo del silenzio, meta di numerosi pellegrini amanti della Divina Poesia. Dopo avergli reso omaggio vi suggerisco oggi una magnifica passeggiata alla scoperta degli spazi verdi cittadini.

Cripta Rasponi

A pochi passi da questo sacro sepolcro ci dirigiamo alla scoperta un angolo incantato, leggermente sospeso che guarda ai tetti della città e alla chiesa di San Francesco, uno degli spazi più intimi e suggestivi dove rifugiarsi per assaporare attimi di silenzio: sono i Giardini Pensili del Palazzo della Provincia. L’accesso al giardino, in cui domina al centro una bella fontana in pietra e marmo, si trova all’interno del portico di Palazzo Rasponi, che conserva anche la cripta posta alla base di una torretta neogotica. Si tratta della cripta Rasponi destinata alla cappella gentilizia della nobile famiglia Ravennate. La parte più significativa di questa minuscola cappella è il pavimento a mosaico, assemblaggio di frammenti disposti in maniera casuale con motivi ornamentali, figure di galline, anatre, oche, teste di ariete e serpenti, colti in atteggiamenti spontanei ed animati dall’uso di smalti che ne esaltano la ricchezza cromatica. A fianco dell’uscita una scala sale fino al belvedere davvero unico e insolito, il giardino pensile dal quale si accede al contiguo terrazzo sopra il voltone, costruito nel 1839, e che serviva a collegare il Palazzo Rasponi alle scuderie e ai magazzini. La nobile dimora in epoca rinascimentale era conosciuto per il grande giardino interno di cui oggi si conservano soltanto il parterre e la zona pensile. La parte in basso è all’italiana, con cespugli di bosso potati geometricamente e il cui punto focale è costituito appunto dalla fontana dell’architetto Arata. Sulle terrazze si trovano invece i resti del tempietto neoclassico, piante rampicanti e cespugli di rose bianche a ricreare l’atmosfera romantica di un tempo. La terrazza più alta in realtà è stata aggiunta solo nel XX secolo. Mi piace immaginare che qui anche Lord Byron con la sua amata Contessina Guiccioli si siano persi in giochi di amoroso sapore.

Giardini Pensili

Il nostro percorso continua attraverso il passato affascinante di vecchi giardini. A  volte ne incontriamo di selvaggi e abbandonati, che non ricordano più l’ultimo tocco delle mani; altri cresciuti spontaneamente intorno a case senza eredi, nella spontanea impresa di avviluppare muri di palazzi antichi con i loro verdi rampicanti. Infine ce ne sono di ben preservati e amati capaci, grazie alla cura dell’uomo, di sopravvivere al passaggio del tempo portando seco racconti che qualcuno va a riscoprire mettendoli a disposizione di tutti. A Ravenna ne esiste uno così, se da piazza san Francesco ci addentriamo infatti verso la piazzetta dell’Arcivescovado, magari ponendo un occhio al’antichissimo battistero Neoniano, girato l’angolo scopriamo incantevole fazzoletto di terra coltivata questa volta ad erbe antiche e semplici: si tratta del Giardino delle Erbe Dimenticate. Appena voltato l’angolo ci troviamo innanzi ad un cancello di ferro che spalanca le sue ali sul lussureggiante giardino magico, come quello delle favole, la cui storia comincia nel lontano 1780. Fu Camillo Morigia, lo stesso architetto di ambito neoclassico cui si deve anche la tomba di Dante Alighieri che ne realizzò il primo portico, insieme ad altri interventi di abbellimento del Palazzo Rasponi Murat. Quando si entra in questo spazio, il tempo, i suoni e tutta la frenesia della città scompaiono come per magia. Pian piano al loro posto inizia ad aleggiare in aria il profumo di queste piante, tutte accuratamente selezionate e i cui nomi sono segnalati in piccole targhette poste ai piedi di ciascuna e ricostruite filologicamente in aiuole di erbe mediterranee e altre specie meno note, tramandate nei ricettari degli speziali. Piante di cappero e pungitopo, cicoria, carciofi e tante altre. Un vialetto circolare reca al centro dove si trova la fontana con il suo quieto rumore di acqua che riesce a sconfiggere anche i più tristi pensieri. Se porterete con voi un libro, questo è il luogo perfetto per abbandonarsi nelle sue pagine e fermare il tempo in una dimensione indefinita. Dal 2020, il Giardino Rasponi, questo il suo nome originario, ospita al proprio interno anche una piccola bottega-bistrot all’aperto che offre ad orario continuato gastronomia fredda, focacce, pan brioche farciti e dolci da gustare seduti ai tavolini, tra le aiuole di erbe aromatiche e all’ombra degli alberi in fiore, la bottega propone anche prodotti a scaffale e da banco, come conserve, pasta secca, vini, formaggi e salumi regionali.

Giardino delle Erbe dimenticate

Dopo la pausa mangereccia continuiamo la nostra esplorazione recandoci in visita ad un altro storico  giardino, trattasi di un ex convento, quello degli Agostiniani, oggi conosciuto come Complesso di San Nicolò. Torna il nome del Morigia, cui si deve la risistemazione quasi attuale, prima dei ventennali lavori tra gli Anni ‘70 e il 2001 che hanno recuperato completamente la struttura. La chiesa ha una storia lunghissima ed è l’unica di Ravenna che possiamo definire davvero gotica. I due chiostri con giardino, risalgono rispettivamente al 1600 e al 1700, qui immaginiamo uomini di chiesa e viandanti che sostavano in meditazione. Si ipotizza che  il chiostro est, confinante con la chiesa e che annovera tra le specie arboree gli abeti rossi, il prugno selvatico e l’alloro, fosse nella zona deputata alla clausura; mentre il bel giardino alberato del chiostro ovest, con la grande magnolia al centro, il cedro, i bossi e gli agrifogli, fosse di fronte alla “zona della merenda”, il refettorio. Anche qui troviamo un pozzo posto al centro che poteva presumibilmente servire ad attingere l’acqua per la cucina. Ma ancora una volta sono minuscole tessere colorate e preziose a farla da padrone grazie al tocco contemporaneo del salottino di mosaico “Kakehashi” degli artisti giapponesi Hitoshi e Tokako Shiraishi  che lo rendono decisamente unico nel suo genere.Giunge quindi il momento di lasciare la città, e così imbocchiamo viale Roma in prossimità di Porta Nuova, dove si affaccia anche l’antico complesso di Sant’Apollinare Nuovo. Alla fine del viale scorgerete sulla vostra sinistra un edificio in mattoni tipico dell’architettura ravennate, si tratta della Loggetta lombardesca sede del MAR (Museo arte della Città) e dietro i grandi spazi aperti dei Giardini pubblici di Ravenna. Furono in passato rispettivamente sede di un ippodromo, di un velodromo e persino di un campo da calcio, per essere poi trasformati, negli anni Trenta, nei Giardini Pubblici su progetto dell’architetto piacentino Giulio Ulisse Arata, lo stesso della fontana dei Rasponi. Vi si accede attraverso una splendida cancellata in ferro, con al centro una fontana, al suo interno, alberi ad alto fusto di grandi dimensioni lo punteggiano di piacevoli oasi ombreggiate. Vi consiglio di consultare i calendario degli eventi perché spesso al loro interno troverete allestiti mercatini e manifestazioni a tema.

Buon verde a Tutti!

Loggetta Lombardesca particolare dei giardini

Il Barbaro colto

“Re o governanti non sono coloro che portano con sé uno scettro, ma quelli che sanno comandare”

Socrate

Ravenna città di antiche memorie conserva le vestigia di un antichissimo palazzo il cui proprietario era molto conosciuto alla fine del V Sec. D.C. per essere stato spietato, assassino e spregiudicato. Forse anche ossessionato, di lui e della sua imponente corte di dignitari con nomi altisonanti quali Simmaco, Cassiodoro e Boezio molto è stato scritto.

Oggi camminando per la città sembra quasi di sentire ancora la sua presenza. Quel Re che in realtà diede col suo governo lunghi anni di prosperità e pace ai suoi sudditi è meglio noto con il nome di Teodorico il Grande la cui fede religiosa venne definita eretica conducendolo nei secoli, ad essere in qualche maniera dannato per aver abbandonato l’ortodossia e morendo nel peccato indicato come un demone.

Mosaico Battistero degli Ariani (part)

A Ravenna si trovano il suo Palazzo, la Cappella Palatina, la Tomba mausoleo e il Battistero cosiddetto degli Ariani, i suoi seguaci nella fede. Teodorico Rex Gentium trascorse molti anni in città lasciando tracce che ci raccontano storie incredibili di cui la sua è quella più misteriosa.
La visita potrebbe prendere avvio dal sagrato della Chiesa Palatina, oggi Sant’Apollinare Nuovo, le cui pareti a mosaico presentano figurazioni in parte modificate dopo la morte del Re al fine di decretarne la damnatio memorie. Sulla parete superiore delle navate restano però anche originali messaggi commissionati dal grande sovrano con episodi unici dell’Antico Testamento che qualcuno ha anche definito il Vangelo secondo Ravenna. Del suo meraviglioso palazzo rimane l’indelebile memoria nello stesso ciclo musivo, il suo fasto era tale che qui venivano portati gli ambasciatori in visita a Ravenna perché attraverso esso stimassero la grandezza del suo regno. Di fronte si trova la meravigliosa città di Classe con le navi e il porto circondato dalle mura romane, anche questo un messaggio di grande prestigio che connota la grandezza del potere di Teodorico estesa ad ogni parte della città.
Ma da dove arrivava il grande Re?
Fu inviato in Italia dall’imperatore di Costantinopoli Zenone per sconfiggere il re degli Eruli Odoacre e riprendere il possesso dell’antico Impero Romano. Ma Teodorico era un barbaro di Pannonia cresciuto alla corte di Bisanzio imparando il latino e il greco e abituato ad apprezzare la bellezza dei mosaici sfavillanti di oro e colori. Non un semplice rude soldato quindi, ma un uomo scaltro e colto che dopo la sua vittoria contro Odoacre mostrò immediatamente un’ammirazione indiscussa per la “romanità “intraprendendo grandi opere di edificazione e restauro nella città già antica Capitale. Cassiodoro con le sue parole ce lo testimonia: “Theodoricus acquam Ravennam perduxit…” un regalo del Re ai Ravennati in una città senz’acqua nonostante il mare.

Ravenna – cosiddetto Palazzo di Teodorico

Se si trovavano appese lancia e scudo era segno di pace… ancora oggi nel sottosuolo tra gli scavi giacciono enormi tappeti di pietra e parti delle antiche fondamenta. Teodorico amava il mare ed è noto che egli avesse un triclinio a mare al quale si accedeva ad est del Palazzo.

Lasciato il Palazzo e i suoi mosaici appesi, ci possiamo adesso spostare in Piazzetta degli Ariani dove si trova un curioso edificio visibilmente interrato almeno di un metro e mezzo e a forma ottagonale. Si tratta del Battistero degli Ariani di cui resta la decorazione musiva solo sulla cupola. Qui si celebrava, per immersione, il sacro Battesimo e così il fiume Giordano è stato raffigurato come un vecchio con la barba fluente, mentre affianca il cristo immerso nelle acque circondato dal corteo degli Apostoli in una scena mirabilmente rappresentata in un paesaggio ameno di palme e fiori. Teodorico era Ariano e con lui i suoi seguaci ai quali volle dedicare luoghi di culto riservati e separati da quelli ortodossi. Ma per questo nobile e intelligente gesto pochi lo apprezzarono, più semplice fu condannarlo per eresia.

E siamo giunti nella Piazza centrale di Ravenna, detta del Popolo, dove a questo punto possiamo dilettarci in una sorta di caccia al tesoro di Teodorico. A lato del palazzo veneziano del Comune sono infatti stati messi in opera alcuni capitelli recuperati da un’antica chiesa teodoriciana oggi scomparsa, dove si nota il monogramma di Teodorico che ci rimanda alla sua memorabile presenza in città.

Spostandoci invece in direzione dell’attuale stazione ferroviaria si trovano alcuni lacerti di mura andate distrutte assieme alle due antiche porte: Artemetoris, accesso alla tomba del grande Re e Porta Palazzo con due torri poste all’ingresso del palazzo. Un tempo un cordone di dune correva parallelo alla linea di costa (perché il mare era accanto alla città) e venne utilizzato per la sepoltura dei Goti. Scavando è stato scoperto un tesoro riconducibile al nostro e chiamato la Corazza di Teodorico, tanto che i bambini si dilettavano ad un gioco chiamato la “pignattazza” che consisteva nello scavare grandi buche dove trovare il Tesoro Di Teodorico

Siamo ormai giunti al termine della nostra passeggiata sulle orme del Grande Re “barbaro colto” e oggi dove sorge il suo mausoleo, ci sono i giardini pubblici della città a lui intitolati. Il mausoleo si presenta davvero con una struttura architettonica insolita, molto studiata ancora oggi, che all’interno conserva il sarcofago in porfido rosso come si conveniva ad un grande re o imperatore. Ma è a questo punto che arriva la più nota leggenda di Ravenna…

Tomba di Teodorico

La cupola dell’edifico è attraversata da un’evidente crepa che si dice causata dalla caduta di un fulmine. Quando il Re, infatti, era ancora in vita gli fu predetto che sarebbe morto a causa di un fulmine e così egli decise di rifugiarsi qui ogni volta che c’era un temporale. Ma il destino non si sfugge e una saetta precipitò dal cielo squarciando la cupola e trafiggendolo a morte.

Egli morì a Ravenna il 30 agosto del 526 dopo anni di tormenti e timori nei quali fu accompagnato dalla costante paura che qualcuno attentasse alla sua vita. Altre leggende sulla sua fine vennero narrate da Carducci al grande Procopio di Cesarea…scaraventato nella bocca di un vulcano, caduto a terra per la visione di un pesce rosso servitogli sul piatto con la testa di Simmaco da lui fatto assassinare. Gli storici ci parlano piuttosto di una forte dissenteria che lo rese consapevole della morte dopo 33 anni di regno tra saggezza e contrasti, vittorie e risentimenti…ma nonostante tutto passeggiando per Ravenna ancora oggi di Teodorico si ricorda solo quanto fosse stato Grande.

Per un buon pasto in zona, consiglio la storica Trattoria Al Gallo 1909 locale storico d’Italia. Si trova in Via Maggiore nel Borgo San Biagio. Al suo interno si custodiscono tra tavoli imbanditi quadri, sculture, vetrate liberty e art decò. Il cibo è semplicemente raffinato ed ottimo nel pieno rispetto della tradizione Romagnola!

Ravenna – Antica Trattoria al Gallo

Quel nettare ambrato che sedusse la principessa Galla

“Non cosi umilmente ti si dovrebbe bere, bensì berti in Oro”

Galla Placidia

Sulle ridenti colline tra le città di Cesena e Forlì un piccolo ed accogliente borgo conosciuto per il dolce vino dorato che vi si produce, guarda il mare Adriatico e nelle sere d’estate é illuminato da un manto di stelle argentate, il suo nome è Bertinoro. Attraversando la via Emilia, antica strada maestra romana, lo si scorge tra i rinomati vigneti che ad ogni stagione restituiscono magici colori. La storia di questo luogo si lega infatti da secoli all’amabile Albana che qui si produce grazie ad un terreno caratterizzato dallo spungone romagnolo che crea quel microclima ideale in grado di dare struttura e colore alle viti da cui deriva la qualità dell’uva considerata la migliore tra le bianche. In ogni tavola romagnola che si rispetti troverete questo amabile vino!

Il suo colore ambrato, il gusto dolce e delicato conquistarono già anticamente i romani tanto da far parlare di sé Plinio il Giovane e il Vecchio i quali ce l’hanno descritto come eccellente e di pregio. Ma la testimonianza più nota e celebrata fu quella della Principessa e futura Imperatrice Galla Placidia che contribuì a dare origine anche al nome del borgo oggi tra i più belli d’Italia. Visitando il suo mausoleo ne ammiriamo ancora oggi il cielo stellato della cupola… e chissà se durante i suoi viaggi Galla abbia voluto immortalare anche le stelle meravigliose che sopra il cielo di Bertinoro sembrano ancor più lucenti.

Bertinoro panorama

Se avessimo a disposizione una macchina del tempo e potessimo tornare ad un giorno d’autunno di un anno tra il 425 e il 450 D.C. e fossimo fortunati, magari incroceremo una portantina romana meravigliosamente agghindata con un seguito di guardie e soldati che conducono da Roma a Ravenna la principessa romana figlia di Teodosio il grande. Galla Placidia durante il viaggio volle godere delle amene colline e approfittando della generosa accoglienza di quelle terre degustó il dolce ambrato nettare definendolo degno di essere bevuto in una coppa d’Oro…Berti in Oro.

Tanti secoli sono trascorsi e l’Albana di Romagna rappresenta un fiore all’occhiello della produzione vinicola e il primo vino bianco in Italia ad aver ricevuto il riconoscimento DOCG nel 1987, grande onore per un classico vino del contadino, torbido, iper-profumato, ossidato e dolce fino allo svenimento. Oggi, il cru più famoso e vocato di tutta la Romagna sta vivendo una seconda giovinezza, con i vignaioli che hanno appena iniziato a scoprire quante soddisfazioni possa dare questo antico vitigno, che ha contribuito anche a valorizzare uno dei Borghi più belli d’Italia.

Colonna delle Anelle

Bertinoro è del resto conosciuto anche come il Paese dell’accoglienza per via dell’insolita colonna posta al centro della Piazza del Comune e detta Colonna dell’ospitalità poiché i forestieri che giungevano sul borgo, legando i loro cavalli ad una delle “anella” ancora oggi visibili, acquisivano il diritto di essere ospitati dalla famiglia alla quale l’anello apparteneva. La tradizione vuole che lo scopo di questa usanza derivasse per evitare le dispute fra famiglie che ambivano ai rari forestieri dai quali potevano apprendere notizie aggiornate su quanto accadeva in città fornendo un po’ di gossip al piccolo borgo di Bertinoro.

Nella parte più alta del colle, si scorge la bella rocca che risale all’alto medioevo, costruita dalla famiglia Malatesta per la difesa del territorio circostante, grazie al sistema di fortificazioni, costituito da mura e torrioni che la resero quasi imprendibile. Numerosi nel corso dei secoli gli ospiti illustri, a partire da Federico I di Svevia, Cesare Borgia che nel ‘400 ottenne il feudo di Bertinoro dal padre Papa Alessandro VI e i fine il sommo poeta  Dante, a lungo ospite dei signori di Polenta, che nel 14° canto del Purgatorio fa dire tristemente a Guido: «O Bertinoro, ché non fuggi via poi che gita se n’è la tua famiglia e molta gente per non essere ria?».

Godete dunque appieno dell’Albana a Bertinoro sostando una sera d’estate affacciati da questo balcone naturale,  iniziate con uno sfizioso aperitivo a base di fritti dell’Adriatico, pesce povero ma di prima qualità, continuate con una bottiglia da vendemmia tardiva caratterizzata da fresche e pungenti note di zafferano, che si sposa bene ai primi conditi con sughi di carne come i celebrati tortelli romagnoli. Infine l’accostamento noto a tutti i romagnoli: Albana dolce o amabile con la classica ciambella o la pasticceria secca e di tipo passito con  scaglie di formaggio di Fossa, qualche acino d’uva bianca e noci. 

Tagliere Romagnolo

Buon Appetito!

Una tigre chiamata Caterina

“Fatelo, se volete: impiccateli pure davanti a me. Qui ho quanto basta per farne altri.”

Caterina Sforza

La Romagna si sa, ama le donne da sempre, che siano le giovani e graziose turiste villeggianti oppure donne dal passato grandioso che hanno lasciato indelebile traccia. Ne abbiamo già incontrate alcune, da Galla Placidia alla contessina Guiccioli in Ravenna; donne forti, intraprendenti e pure coraggiose, specie se si considera il periodo storico in cui vissero. Questa volta ci sposteremo a Forlì ed Imola passando per il borgo di Dozza poiché qui visse colei che si guadagnò in vita l’appellativo di “Tigre di Romagna”. Caterina Sforza signora di Imola e Forlì.

Una combattente fiera, indomita e spregiudicata, ma soprattutto capace di stare a fianco dei suoi soldati alla stessa stregua di qualsiasi uomo d’armi del suo tempo. Imola, Dozza, Forlì sono state le sue roccaforti più importanti dove visse e dalle quali si difese strenuamente dai nemici venuti per prenderne i possedimenti.

Castello Sforzesco di Milano

Ma da dove veniva la giovane Caterina?

Cresciuta a Milano, alla splendida corte del padre Galeazzo Maria tra artisti e letterati, venne allevata dalla nonna paterna acquisendo in seguito la passione per la caccia, le armi e il gusto di governare… Arrivò in Romagna entrando in Imola con il primo marito Giorlamo Riario nipote di papa Sisto IV, e ne abitò la splendida e possente rocca. Successivamente conquistò Forlì e i forlivesi, che di quella donna ammirarono eleganza, bellezza e gusto raffinato seppur nel tempo ne conobbero anche il carattere stravagante e il piglio autoritario. La rocca di Ravaldino in città fu infatti teatro di scontri sanguinosi e dispute diplomatiche tra la giovane Caterina, rimasta vedova dopo l’attentato al marito da parte della famiglia Orsi di Forlì e i nemici del papa. Dall’alto di quelle mura pare abbia mostrato il pube dicendo di avere ancora lo stampo per fare altri figli, se quelli che già aveva le fossero stati uccisi. Un carattere intraprendente e che con altrettanta eleganza e cultura portò fiera l’appellativo della sua stirpe, forza. Oggi in città si trova un vicolo chiamato il Guasto degli Orsi per la vendetta che ella apportò, in nome del marito Riario, distruggendo tutti i possedimenti che la famiglia assassina aveva in questa zona. In seguito anche Niccolò Machiavelli le dedicò memoria riferendo della sua resistenza fiera e solitaria ammirata in tutta Italia, seppur nessuno accorse in suo aiuto.

La bellezza di Caterina, divenuta indiscussa Signora governatrice di Forlì, in seguito conquistò altri due uomini che sposò: Jacopo Feo, fratello del castellano e Giovanni de Medici, nipote del grande Lorenzo. Si sospettò anche di un possibile flirt con il grande Cesare Borgia, detto il Valentino, poco prima che questi la inviasse, con tutti gli onori, in prigione a Roma. Ad ognuno di loro sopravvisse tra congiure e guerre intestine che la riportarono negli ultimi anni della sua vita a Firenze, dove morì di polmonite nel 1509.

Le arti e la destrezza di Caterina non si fermarono tuttavia solo in ambito politico diplomatico, poiché ella fu rinomata cultrice di ricette e rimedi di bellezza dedicandosi a questa arte per tutto il corso della sua vita. Con unguenti e rimedi curativi ottenuti tramite utilizzo di erbe, parti di animali e sostanze naturali come pietre e polveri, ella passava molto tempo dallo speziale. La medicina dell’epoca era ancora più alchimia che farmacopea e così la pozione velenosa in tutte le sue declinazioni era il composto più venduto nelle corti e non solo. Caterina era in questo un’ esperta, conosceva molto bene i principi alchemici tanto da dilettarsi con esperimenti per convertire il metallo in oro. Presso la Rocca di Ravaldino conservava e curava un orto/erbario a cui il suo speziale di fiducia, Lodovico Albertini, rimase sempre fedele e facendole recapitare composti e erbe anche quando ella si trovò in esilio a Firenze. Fu l’inventrice del cloroformio utilizzato per addormentare i malati durante gli interventi e sempre a lei molti attribuiscono la nascita della cosmesi attuale, come si legge in un estratto della Nazione del 1865: “Caterina dè Medici (Regina di Francia dal 1547 al 1559 n.d.r.) insegnò l’arte dei profumi alle Signore di Parigi, perché tale arte l’aveva appresa dalla celebre Caterina da Forlì…”  Fu il suo ultimogenito, Giovanni dalla Bande Nere, a custodire amorevolmente le ricette della madre che in tutto erano circa 471, giunte ai giorni nostri e raccolte in un libro, “Ricettario di bellezza”, pubblicato nel 1933.

Giovanni dalle bande nere

Se la storia e le vicende di Caterina Sforza vi appassionano in Romagna si possono ancora oggi percorrere le orme di questa prodigiosa e battagliera donna del Rinascimento visitando le rocche di città e borghi medievali. Punto di partenza sarà Forlì dove si trova la cittadella sforzesca conosciuta come Rocca di Ravaldino e dove la contessa visse a lungo creandovi il suo giardino delle erbe e delle spezie oltre al famoso Paradiso, che altro non era se una sorta di dependance con i suoi appartamenti privati e una corte, ora purtroppo andato perduto.

Rocca di Ravaldino Forlì

Dirigendosi invece a nord, verso Imola, tappa obbligata per seguire le vicende della Tigre di Romagna è Dozza con la sua imponente rocca sforzesca. Piccolo e grazioso borgo medievale, Dozza è posta in alta collina da cui si ammirano panorami mozzafiato e il cui antico complesso medievale fu trasformato proprio da Caterina in castello fortificato per adibirlo a residenza nobiliare. Si trova al centro del borgo e conserva ambienti intatti: il famoso pozzo a rasoio, la sala delle torture, gli appartamenti nobili, la cucina del castello e infine le splendide torri che permettono di immergersi davvero nel passato. Parte dell’’interno della rocca è oggi sede dell’Enoteca regionale dell’Emilia Romagna dove consiglio di fare tappa per scegliere tra l’ampia selezione delle maggiori cantine del territorio e gustare assaggi della tradizione locale.

Guardando invece verso la Toscana, sulla strada provinciale per Firenze venendo da Forlì, si incontra Castrocaro luogo famoso per i suoi stabilimenti termali, che vantano architetture art deco’ uniche per bellezza e stato di conservazione. Ai tempi di Caterina il territorio era un luogo di passaggio dotato di posti di guardia e dogane tanto che la contessa usava spesso incontrare qui gli ambasciatori provenienti da Firenze. La fortezza, che oggi è tra le meglio conservate, è ammirevole architettura soprattutto perché costruita completamente sullo “spuntone” di roccia che sovrasta il borgo antico. Qui le leggende narrano che la nobile leonessa si unì segretamente in matrimonio con Giovanni de’ Medici, suo terzo marito e ambasciatore fiorentino nelle terre di Romagna e qui ancora oggi vi sono le segrete e le celle di prigionia.

Rocca di Castrocaro interni

Infine Imola, la prima sede della coppia Riario Sforza, la cui rocca fu luogo in cui soggiornò soprattutto nei primi anni del suo governo in Romagna.

Posta  al limitare delle mura cittadine, costituisce uno splendido esempio di architettura fortificata tra Medioevo e Rinascimento
venendo dotata, tra 1472 e 1484, di rivellini, torrioni angolari circolari, cannoniere decorate con ornati e emblemi della signoria. Oggi ospita la sede dei musei civici con una notevole esposizione di ceramiche e armi in uso nei secoli in cui la rocca era adibita a difesa del territorio.

Un percorso storico e anche culinario è quello legato dunque a questa figura femminile che forse, oggi più di ieri, merita di essere ammirata e meglio conosciuta. Un simbolo indiscusso di coraggio tutto femminile di madre e sovrana che come poche altre seppe guadagnarsi onori e rispetto in un mondo tutto al maschile e che al momento giusto le seppe riconoscere non solo la bellezza ma anche la forza e la determinazione. Una sovrana attiva e politicamente a volte scorretta, ma comunque sempre attenta e fiera custode del suo onore e dei suoi valori.

La vita intrigante e appassionata di Caterina potrete approfondirla nelle numerose opere e documentazioni a lei dedicate. La terra appassionata di Romagna vi attende invece ancora una volta per svelarvi le sue preziose memorie.

Murales di Dozza

Quel suono profumato del liuto

“La felicità è una cosa nella quale ci si deve esercitare, come col violino!”

John Lubbock

Oggi vi voglio raccontare della mia deliziosa passeggiata alla coperta dei segreti di un’arte antica e pregiata, quella dei liutai, mi trovo infatti nella discreta ed elegante Cremona. Una città a misura d’uomo, con una bellissima piazza dove affaccia il Duomo e che ha dato i natali alla grande Mina. A Cremona si scoprono luoghi ancora incredibili e autentici dove la musica accompagna storie e tradizioni, la musica dolce, elegante e raffinata dei suoi violini.

Parto dalla bella piazza del comune, il cui palazzo è affiancato dal noto broletto in stile lombardo, attorniata da bellissime architetture medievali. Resto affascinata dalla meravigliosa facciata della grande Cattedrale dedicata a Santa Maria Assunta e rinominata cappella Sistina della Pianura Padana per gli incredibili affreschi del suo interno. Di antico impianto romanico, al suo fianco il celebre e splendido battistero e infine il Torrazzo, torre campanaria simbolo della città.

Cremona Duomo

Nel lasciare la piazza faccio tappa in un negozio situato in via Solferino, impossibile non notarne la bellissima entrata e le grandi vetrine colme di dolci e saporiti colori: sono da Enea Sperlari, colui che custodisce da più di un secolo il segreto di fabbricazione del torrone e della mostarda, tramandatogli per tradizione da antichi produttori. Nel tempo lo Sperlari divenne fornitore della Real Casa sia della Regina Madre Margherita, che del Principe di Piemonte Umberto rispettivamente ne 1921 e nel 1929. Ancora oggi i sapori forti, speziati, cioccolatosi e mandorlati sono esposti sui banchi del negozio che dal 1836 porta avanti la tradizione. In realtà questo gustosissimo dolce, conosciuto in tutto il mondo, deriva da un celebre evento svoltosi nell’ottobre del 1441 quando nella chiesa di San Sigismondo di Cremona si celebrarono le nozze di Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza i quali ricevettero in dono una miscela di albume, miele e mandorle: nasceva il torrone!

Negozio Sperlari

Ma a Cremona non esiste forse angolo da cui, anche solo da lontano, non si sentano note e accordi di violini… Mi incammino così a metà strada di Corso Garibaldi dove trovo un’ antica anima potente, nascosta nella corte di antichi palazzi, la cui voce vibrante e ammaliatrice come il canto di una sirena mi avvolge. Sono dal Maestro Stefano Conia, di origini ungheresi, che già giovanissimo si avviò agli studi di violino per poi diplomarsi alla Scuola di Liuteria di Cremona
sotto la guida dei Maestri Sgarabotto, Morassi e Bissolotti. In questa mattina di passeggiata decido di bussare alla vetrata del suo laboratorio bottega. Il Maestro mi apre con un bellissimo sorriso e grande fierezza nello sguardo: benvenuta!

Due enormi tavoli da falegname, colle, bottiglie, vernici e attrezzi ovunque. Qui maestro e figlio costruiscono i loro strumenti ispirandosi ai modelli dei grandi Classici o realizzandone di personali. I legni sono tutti accuratamente scelti e ben stagionati, le linee e le bombature sono classiche, la vernice intensa. Ogni pezzo, controllato ed acusticamente perfezionato, è corredato di certificato di originalità e di garanzia. Perdersi nei segreti di questa arte è davvero un grande privilegio!

Inizio ad ascoltare con grande attenzione il suo racconto scoprendo che ogni tappa del viaggio verso la creazione è importante, delicata e mai scontata. Si comincia dalla scelta dei legni, solitamente provenienti dai boschi dolomitici tra cui la più celebre foresta di pini di Paneveggio, in val di Fiemme. La tradizione vuole infatti che proprio qui il grande Stradivari, di cui il nostro maestro è in qualche maniera erede, vi si aggirasse per cercare gli alberi più idonei alla costruzione dei suoi violini. Abeti rossi dalle venature particolari. “Il legno va ascoltato con l’orecchio teso” mi spiega il maestro, “perché è attraverso le sue insenature che il suono si propaga restituendo allo strumento una particolare capacità di risonanza delle casse armoniche” per poi indicarmi i pezzi di legno perfetti e pronti per essere forgiati dalle loro incredibili mani.

Maestro Konia liutaio

Occorrono quasi duecentoventi ore di lavoro per creare un violino: la tecnica cremonese in particolare, è indicata come forma interna perché tutto parte da dentro. Questa forma inoltre sembra la più idonea a migliorare l’acustica e lo stile dello strumento che ne risulta sempre pezzo unico e irripetibile finito solo con le capacità e la creatività unica dei maestri.

In questa bottega mi perdo tra i racconti e il suono dolce delle musiche che questi strumenti perfetti restituiscono. I giardino interno della corte pare un luogo dì altri tempi e mentre esco e saluto, il maestro se ne torna seduto sul suo sgabello, come rapito e incantato nella sua creazione. Perso di un amore intenso e inenarrabile.

Cremona ci regala tutto questo e anche di più se poi ci si sposta al prestigioso Museo de Violino le cui celebri sale ci raccontano questa lunghissima tradizione in un percorso interattivo ed espositivo unico nel suo genere. Il pezzo forte di questo complesso resta tuttavia il grandissimo auditorium concepito con un’ architettura che ricorda essa stessa un violino, curvature, sinuosità e sedie con assorbimento acustico che contribuiscono a creare un ambiente perfetto dove artisti da tutto il mondo interpretano le grandi sonate. L’Auditorium Giovanni Arvedi è il risultato mirabile ed unico di un progetto ardimentoso e moderno che riafferma ed esalta il ruolo di Cremona capitale del violino e della musica a livello internazionale. Lascio il museo e mentre mi dirigo verso l’ultima tappa, rendo omaggio alla tomba del cremonese per eccellenza: Antonio Stradivari. Di lui non si conoscono le origini, forse nacque a Cremona attorno al 1644 e fu quasi sicuramente apprendista di Nicolò Amati. Divenne presto famoso per i suoi strumenti, i migliori dei quali costruiti tra il 1710 e il 1720. Lavorò fino agli ultimi giorni della sua vita e morì molto vecchio, il 18 dicembre 1737 a Cremona. Passo dai giardini pubblici di piazza Roma, dove è conservata la copia della semplice pietra tombale che riporta la data in cui aveva ottenuto in uso perpetuo il sepolcro per sé e i suoi familiari.

Hosteria 700

Ho fame e Cremona mi accoglie in una delle più deliziose ed eleganti osterie. Hosteria ‘700 è all’angolo della centralissima Piazza Gallina nell’antico palazzo della famiglia Barbò, di proprietà della Marchesa Donna Marietta detta “La Bodora”. Il palazzo del 1837 ha sale sontuosamente decorate dai pittori cremonesi Giovanni Motta e Gallo Gallina tutte arredate con specchiere in stile neo barocchetto che conferiscono al locale un’eleganza ed uno stile davvero inconfondibile. Mi siedo sulla sala del camino dove la luce dei magnifici lampadari a goccia appesi al soffitto mi regalano un’emozione d’altri tempi.

Tante le specialità della casa e così parto dal risotto “700”, per poi passare ai  marubini ed i tortelli cremonesi, il cotechino cremonese con le lenticchie, specie se in inverno non può mancare accompagnato da polenta fresca. Chiudo in bellezza con un ottimo semifreddo al torrone. Il tutto corredato da ottimi vin locali.

Grazie Cremona!

Auditorium del Museo del Violino

La contessina ravennate che conquistò il poeta romantico

“Al mondo non ci siamo che noi che non possiamo e non dobbiamo cessare di amarci”

Lord Byron

Visitare Ravenna a piedi passeggiando per il suo centro storico significa passare da un secolo ad un altro, quasi senza soluzione di continuità. Strade che ripercorrono gli antichi corsi d’acqua che attraversavano la città in epoca medievale, sono oggi tutte elegantemente ricoperte di un bel laterizio bianco che, come un tappeto, si srotola a segnare il percorso ciclabile in pieno centro. Immaginate quando la città, all’inizio del 1800 aveva ancora un selciato di terra e polvere, e attraversarla in carrozza era come arrivare oggi in jet privato in una qualsiasi città del ventesimo secolo. Un mezzo per pochi ricchi, spesso blasonati personaggi o semplicemente prestigiosi viaggiatori del Grand Tour. Se cercate bene, passeggiando verso il Mausoleo di Galla Placidia sito UNESCO, vi imbatterete in una strada dal nome davvero curioso: Gamba! Ed è sempre una gamba stilizzata che sta a corredo del civico 6 di quella via sopra il portone d’ingresso di un palazzo settecentesco. È qui che viveva un Conte ravennate a cui venne promessa e data in sposa, una giovane ragazza dai capelli biondi quando aveva forse solo 20 anni e lui 57. Teresa Guiccioli Contessa Gamba e Marchesa di Boissy, una serie di nomi a segnarne ufficialmente il percorso coniugale ma non certo quello del cuore, perché se il cuore avesse potuto, un solo nome si sarebbe dato: Teresa Guiccioli Byron!

Teresa Guiccioli in Gamba

Da Venezia a Ravenna, passando per Ferrara e Bologna dopo una prima tappa in Grecia e altre città europee, fu questo il lungo viaggio formativo del giovane e affascinante poeta inglese diventato egli stesso sinonimo di Romanticismo. George Gordon Noel sesto barone di Byron, semplicemente conosciuto come Lord Byron, il poeta amante della libertà, dal temperamento malinconico e appassionato che condusse una vita intensa all’insegna dell’anticonformismo degno di un vero Acquario. Tanti gli amori, i flirts e le belle donnine Veneziane nel suo carnet di affascinante biondo inglese, fino all’incontro fatidico con la giovane contessina della quale si innamorò perdutamente, ricambiato, e dalla quale non si separerà più fino alla dipartita patriottica in Grecia nel 1824.Era il 1819 ed essendo a Venezia con il marito la giovanissima sposa Teresa Gamba in Guiccioli, si trovò ad accompagnarlo presso il salotto della Contessa Benzoni, conosciuta in città come la biondina in gondoletta. Quella stessa sera anche Lord Byron si trovava tra gli invitati illustri, ma contro la sua volontà essendo ormai stanco di quella vita dissoluta fatta di belle donne, serate al gioco o a teatro e notti folli in giro per i caffe della Serenissima. La serata fu galeotta e i due si innamorarono all’istante. Un amore bruciante, passionale ma proibito, a meno di non volersi adeguare alla consuetudine che poteva almeno salvare le apparenze. Byron capì subito che quella dolce fanciulla originaria di Ravenna lo stava incantando e che quello sarebbe stato l’amore della sua vita. Teresa dal canto suo venne immediatamente colpita nell’animo da quell’uomo affascinante: “ Questa presentazione che ebbe tante conseguenze per tutti e due, fu fatta contro la volontà di entrambe…La nobile e bellissima sua fisionomia, il suono della voce, le sue maniere, i mille incanti che lo circondavano lo rendevano un cosi differente…” Queste le parole con cui la giovane romagnola avrebbe in seguito ricordato l’incontro nelle sue memorie. Fu quello l’esordio di un crescendo di appuntamenti, cambiamenti, dolori e gioie che avrebbero trovato dolorosa fine con la dipartita in Grecia del poeta.

Lord Byron

Lasciata Venezia i due amanti iniziarono ufficialmente la loro frequentazione a Ravenna città che il poeta amò fin da subito e di cui spesso parlò nei suoi poemi e nei suoi scritti. Arrivò in città per la prima volta nel giugno di quello stesso 1919 trovando alloggio presso l’hotel Imperiale che oggi potrete ammirare passando in via Corrado Ricci essendo stato trasformato nella biblioteca Oriani, proprio a fianco di Piazza San Francesco e nei pressi della Tomba di Dante. Da qui ogni giorno il nostro Lord inglese, di cui tutti già parlavano in città, si muoveva per incontrare la sua giovane musa. Il loro amore fu un’esperienza vissuta tra i luoghi del paradiso terrestre come quattro secoli prima per Dante, il poeta italiano per definizione, gli angoli di Ravenna furono di ispirazione, al tempo lo furono per il collega romantico Byron. I due amanti visitarono assieme i monumenti paleocristiani della città, le pinete che circondano ancora oggi il territorio e dove solevano rifugiarsi nei caldi pomeriggi. Spesso leggevano assieme i classici amoreggiando come due adolescenti trasformando presto il loro flirt in una relazione stabile.

Trascorso un anno Byron divenne ufficialmente il Cavalier Servente della Guiccioli, potendo all’epoca ogni sposa di rango elevato avere un amante/amico accettato anche dal marito allo scadere del primo anno di matrimonio. A quel punto la dimora ravennate di Byron divenne ufficialmente il primo piano di Palazzo Guiccioli sito in Via Cavour, edificio che sarà presto la sede della Byron Society. L’ufficializzazione del ruolo da cavalier servente avvenne invece a Palazzo Cavalli in Via Salara, 40 dove il poeta entrò accompagnato da sette domestici, nove cavalli, tre pavoni, due gatti, un mastino e un’oca.

Delta del Po

La loro storia d’amore divenne simbolo dell’amore romantico fatto di passione, dolore, lunghe missive, attese trepidanti tanto da far piu volte ammalare di febbre la giovane donna la quale si appellava al suo amante come sola cura possibile. Il marito di Teresa ovviamente venne ben presto a conoscenza della relazione, d’altro canto ufficializzata in qualche maniera. Byron seguiva la sua musa a Bologna, presso la villa di Filetto nella campagna ravennate anche se a volte sofferente di una relazione quasi coniugale segnata anche dalla routine. Teresa presto si separò dal marito, tornando presso la casa paterna e infine seguì il suo amato a Pisa e Livorno. I due si amarono intensamente ma di un amore tutto sommato breve, unico e irripetibile per la giovane Teresa che solo 23 anni dopo la morte del suo Byron in Grecia sposò a Parigi il senatore conte Octave Rouillé de Boissy in un clima in cui la Francia era sotto Napoleone III. Byron sarebbe rimasto sempre nel suo cuore e per questo decise di scrivere una biografia del poeta “Vie de Lord Byron en Italie”, mai pubblicate e gelosamente custodite presso la Biblioteca Classense di Ravenna.

Rimasta vedova Teresa fece ritorno in Italia, era il 1866 e vi morì a73 anni.  

“Mia carissima Teresa, ho letto questo libro nel tuo giardino; amore mio, tu non c’eri. Tu non capirai queste parole inglesi, e altri non le capiranno, ecco la ragione per cui non le ho scarabocchiate in italiano. Ma riconoscerai la calligrafia di colui che ti amò appassionatamente, e capirai che, su un libro che era tuo, poteva solo pensare all’amore. In questa parola, bellissima in tutte le lingue, ma soprattutto nella tua – Amor mio – è compresa la mia esistenza qui e dopo. Io sento che esisto qui, e sento che esisterò dopo, per quale scopo lo deciderai tu; il mio destino riposa con te, e tu sei una donna di diciotto anni…Io ti amo e tu mi ami o almeno, cosi dici, e agisci come se mi amassi, il che comunque è una grande consolazione. Ma io ancor più ti amo e non posso cessare di amarti. Pensa a me qualche volta, quando le Alpi e l’oceano ci divideranno, ma non sarà cosi a meno che tu non voglia”.

Palazzo Guiccioli esterno

Il dolce sale rosa di Cervia

Niente è più utile del sole e del sale

Plinio il Vecchio

Se avrete mai un giorno la fortuna di trovarvi, sul fare del tramonto, a piedi o in bicicletta lungo il tratto di strada statale che collega Forlì a Cervia, un’impagabile meraviglia della natura si spalancherà davanti ai vostri occhi: muta nei colori passando dal grigio al rosa intenso, fino al rosso fuoco del tramonto. In questa distesa di acque, il sale ha sempre preservato il suo valore intrinseco. Sono le oltre 140 saline che lambiscono il percorso e che abbracciano come in un mare interno il territorio circostante, benvenuti nella città di Cervia!

Furono egli Etruschi, che da bravi navigatori, si insediarono in questo tratto dell’Adriatico, poi i romani e a seguire nei secoli, l’antica tradizione della raccolta del sale è stata preservata dalla passione, dalla fatica, dal lavoro e dalla perseveranza degli abitanti di Cervia. Oggi il Sale Dolce rientra a pieno titolo fra uno dei migliori Sali prodotti in Italia perché questo celebre oro bianco ha una ridotta presenza di sostanze amare quali solfati di magnesio, calcio, potassio e cloruro di magnesio e per questo risulta un eccellente prodotto privo di elementi chimici raffinanti che lo rendono piacevolmente gustoso.

La sua tradizione è profondamente legata alla storia del borgo marino di Acervi (mucchio) declinato poi in Cervia e legato alle attività del mare e dei suoi salinari. La storia di questo luogo potrete ripercorrerla partendo dal centro della cittadina dove una grande e bella torre squadrata di mattoni si affaccia sul lungo canale fungendo da collegamento tra il mare e le saline.

Saline di Cervia

La Torre San Michele era antico punto di avvistamento dei pirati  e ancora oggi rappresenta il trait d’union tra il percorso storico e quello marinaro. Il Quadrilatero, la Piazzetta Pisacane nei pressi la Cattedrale sono la storia legata alla tradizione del sale, mentre il Borgo Marina e il lungomare testimoniano il trascorso peschereccio della città. Luoghi ameni e ben conservati a testimoniare della storia e dell’identità che derivano anche dal Sale Dolce.

È infatti nel Museo del Sale che si rintracciano le origini della vita in salina e il complesso processo di coltivazione, estrazione e trasformazione del sale.

Museo del Sale

Il museo è ospitato all’interno dei vecchi magazzini di stoccaggio che si affaccia sul canale. Le imbarcazioni chiamate burchielle a fondo piatto sostavano proprio davanti ai magazzini per scaricare le enormi mucchie di sale bianchissimo di cui una parte destinata agli abitanti e ai salinari. Il fiore di sale invece prendeva la strada verso Roma poiché il Papa, proprietario per decenni delle saline, doveva esserne omaggiato ogni anno dopo la raccolta.  

Il duro lavoro dei salinari consisteva nella raccolta manuale del sale emerso dalle vasche di evaporazione, caricato nelle carriole e accumulato in enormi montagne a cono. Sotto il sole cocente, le gambe immerse nell’acqua per ore ed ore. Oggi il bacino chiamato Camillone è ancora gestito secondo l’antico metodo artigianale e rappresenta una sorta di Museo all’Aperto il cui sale raccolto con gli antichi attrezzi e sistemi ha fatto si che nel 2004  fosse riconosciuto come presidio Slow Food. Nel 1697 non lontano da questa idrovora sorgeva la prima città di Cervia posta proprio al centro delle meravigliose saline di cui rimane solo l’antico edificio della chiesa della Madonna della Neve. Ma nella grande fatica dei salinai si ebbero fin dall’antichità anche risvolti positivi: la permanenza in acqua infatti fece notare ai lavoranti un beneficio nella salute delle loro ossa e articolazioni in quanto le proprietà saline delle acque stagnanti risultarono curative.

Oggi a Cervia è un must passare una giornata intera o concedersi un ciclo di terapia alle Terme dove c’è la più grande vasca di acqua salata d’Europa. Un’acqua dalle proprietà benefiche e che dona effetto levigante alla pelle grazie alla forte salinità.  

Cervia Porto canale

Nel tempo il sale di Cervia ha anche sviluppato tutta una serie di declinazioni in vari prodotti che hanno arricchito l’offerta gastronomica fruibile nei numerosi ristoranti e piccoli bistrot della città. La birra artigianale, Salinae nata dal connubio tra acqua, luppolo, orzo e sale dolce dall’aroma delicato e ottimo in accompagnamento di molte pietanze. La mattonella invece è un concentrato pressato di sale sulla cui superficie si possono cuocere sia carne che pesce. Moltissimi i piatti preparati con questo dolce sale che può essere acquistato  in vari formati.Le saline che circondano Cervia sono spesso di colore rosa come i tanti fenicotteri che qui vivono nutrendosi dei suoi micro organismi. Avvistare folaghe, martin pescatori, tarabussini è piuttosto frequente da queste parti e gli amanti del bird watching non potrebbero aspirare ad una location migliore.Cervia e le sue saline sono la stazione più a sud del Delta del Po uno scenario naturalistico che si può esplorare anche in barca catturando immagini suggestive e scenari colorati specie al tramonto.

fenicotteri rosa

La Biblioteca Malatestiana di Cesena

“In questo luogo dove le parole sui libri sono magnificamente protette, è bello lasciarne di sospese in aria”

Tonino Guerra

Cesena sta al Signore Domenico Novello Malatesta come la Magia della sua Biblioteca monastico-rinascimentale sta al sapere e alla pazienza dei monaci che qui con passione e cura scrissero, copiarono e incisero lasciando un patrimonio di codici preziosi. Oggi La Biblioteca Malatestiana è Memoria del Mondo, titolo conferitogli meritatamente dall’Unesco.

Cesena 1452, Domenico Malatesta, signore della città, incarica l’architetto Matteo Nuti di realizzare quello che sarà il suo capolavoro: gioiello quattrocentesco destinato a lunga vita ed oggi in perfetto stato di conservazione, sia dal punto di vista architettonico, degli arredamenti interni che nella collezione che custodisce.

Bibioteca Malatestiana

Il Nuti concepisce per la Biblioteca una struttura a tre navate che ricorda una chiesa, dovrà ospitare tutto il sapere degli antichi già tramandato dai fratelli Francescani Minori di osservanza che avevano chiesto al Papa fondi per conservare i loro codici all’interno del convento. Il grande mecenate d’Arte della famiglia Malatesta di Rimini fa partire i lavori per il suo rinnovo e poi affida il patrimonio al Comune della città.  Cesena è ancora oggi la sua magnifica biblioteca orizzontale, unica nel genere e, quando la porta che la protegge da qualsiasi elemento estraneo alla natura, come luci artificiali, gas, elettricità, si spalanca…sarà come aver preso una macchina del tempo ed essersi ritrovati in pieno Medioevo. Entriamo con rispetto e in punta di piedi!

Il magico effetto della luce

La stupenda porta lignea, opera di Cristoforo da San Giovanni in Persiceto, è contenuta nel portale sormontato dal timpano entro cui è scolpito l’elefante, antico emblema malatestiano, che regge il singolare motto: L’elefante indiano non teme le zanzare.  Fu un accurato lavoro di scultura portato a compimento da Agostino di Duccio. Si apre con due chiavi differenti perché ha due serrature differenti, oggi diremo una username ed una password di accesso che in passato altro non erano che due monaci differenti ognuno dei quali poteva aprire una parte, e solo quella, della porta. Metodo perfetto per impedire che malintenzionati potessero violarne il contenuto. 

Non è raro sentir definire questa biblioteca la “più bella del mondo” e probabilmente sarete d’accordo fin dal primo sguardo che corre su una prospettiva delicata e gentile. Una sala unica e protagonista assoluta.

La luce filtra dalle 22 finestre a sesto acuto che la incorniciano, una luce delicata al mattino, ammaliante allo zenit e consolatrice al tramonto. La stessa che accompagnava gli occhi dei monaci amanuensi che ci hanno lasciato oltre 250.000 volumi inclusi quelli recuperati nei secoli successivi. Opere che appartengono alla tradizione greca, latina, ebraica, araba, un insieme che si può definire un progetto di cultura umanistica universale.

I volumi

Lungo le navate laterali alloggiano i banchi in legno che contengono i volumi antichi posti con catenelle originali in posizione insolitamente orizzontale per una biblioteca. Tre numeri identificano ancora oggi i volumi: il numero del banco, la fila e la posizione destra o sinistra. A dividere l’ambiente, una fila di colonne scanalate con capitelli decorati posti sotto navate a crociera, la navata centrale invece funge da corridoio sempre illuminato dal rosone centrale. Sotto la luce che vi penetra e che pare un enorme mandala, poche parole…qui giace in pace Domenico Novello Malatesta signore di Cesena.

I colori sono soltanto tre e si ripetono in maniera armoniosa in ogni dettaglio: bianco, rosso e verde, gli stessi dell’araldica malatestiana e autentica firma da sempre impiegata dalla famiglia. Nel colore dei muri, nel colore del legno dei banchi e nel cotto delle tavelle del pavimento che tutti assieme firmano in maniera neanche troppo celata, questo lascito di incommensurabile valore.

Si narra che di passaggio in Romagna da Roma, recandosi alla corte Estense presso il suo futuro marito, la bellissima Lucrezia della famiglia Borgia ebbe occasione di visitarla e che abbia addirittura apposto la sua firma in uno dei muri della controfacciata. Molti in realtà sono i graffiti qui incisi come espressione libera, immediata, spontanea di chi vuole lasciare un segno delle sue sensazioni.

Iscrizioni

Questo meraviglioso gioiello custodito in un’ala dell’antico convento francescano di Cesena merita davvero una visita che vi regalerà certamente un’emozione immensa. Rimarrete stupiti, ammutoliti e vi domanderete in che modo un luogo così perfettamente conservato abbia potuto superare indenne molteplici vicissitudini. Le guerre Napoleoniche, quando venne utilizzata come rifugio per i cavalli e le guardie, durante i due conflitti mondiali in cui i bombardamenti rischiarono di farla rovinosamente scomparire. Nulla di più semplice: i cittadini della città, i suoi guardiani attenti e rispettosi, coloro che per primi poterono vantare all’inizio del XV secolo un luogo dove leggere gratuitamente del sapere antico. Si adoperarono per proteggerne i volumi, i codici e i libri che oggi grazie alle moderne tecnologie si possono sfogliare dal sito della Biblioteca perché tutti accuratamente smaterializzati. Neanche Novello Malatesta sarebbe stato così ambizioso nel suo progetto!

Anche se si entra più volte in questo luogo sospeso nel tempo, esso non smette di raccontarci instancabilmente di come il sapere, la memoria, la grandezza degli scrittori antichi trapelino da parole protette e sospese al contempo, sopra le quali solo lo stupore dei visitatori può silenziosamente aggiungere qualcosa.

Dopo la visita in Malatestiana, concediti una piada e specialità Romagnole presso l’Osteria Michiletta o per una pizza al tegamino da Semplice!

La maestosa rocca di San Leo

“Io non sono di nessuna epoca e di nessun luogo; al di fuori del tempo e dello spazio il mio essere spirituale vive la sua eterna esistenza…”

Cagliostro

Celebrata fortezza medievale di origini antichissime, la maestosa rocca di San Leo rappresenta ancora oggi un baluardo difensivo che impressiona per la mole e per la collocazione a picco sullo sperone di roccia. Siamo in Montefeltro, quel vasto lembo di terra al confine tra Romagna e Marche che prende il nome dai possedimenti che un tempo furono dei signori di Urbino, Federico e Guido da Montefeltro, uomini d’arme e  grandi mecenati che divennero esempio di cultura rinascimentale. Una giornata in visita al Castello può iniziare con una piacevole passeggiata che prende avvio dalla piazzetta del piccolo borgo. Ma San Leo la si nota da ben più lontano arrivando da Rimini ed addentrandosi nei primi appennini tosco romagnoli, svetta nel suo basamento di calcare alto oltre 600 mt nelle forme modificate e plasmate dagli elementi che le restituiscono un fascino incredibile. La vista di questo magico luogo può velocemente mutare a seconda della direzione da cui la si guarda, arrivando dal costone delle colline dalle Marche infatti essa si presenta quasi nascosta e indefinita.


Rocca di San Leo (RN)

Ancora oggi raggiungere il centro storico del piccolo borgo è un’esperienza: si sale in auto o a piedi proprio affiancando la roccia che appare come un enorme gigante di pietra posto a sentinella dei segreti del castello che porta sulle spalle.

La fortezza come oggi la vediamo, segue il disegno e il progetto del grande architetto Francesco di Giorgio Martini che a metà del 400 la ricostruì dotandola di un impianto difensivo moderno secondo le nuove invenzioni delle armi da fuoco medievali. La sua forma perimetrale ricorda una enorme L che sul lato nord est ha il massimo livello del suo incredibile strapiombo. L’impianto architettonico presenta una enorme corte esterna con i grandi torrioni circolari e una più interna posta al lato opposto da dove si accede anche agli appartamenti rinascimentali.

L’esperienza di San Leo diventa davvero affascinante e misteriosa se ci si addentra al suo interno e nella storia dei personaggi che la abitarono aimè da prigionieri. Uno in particolare venne ospitato e rinchiuso in una minuscola cella di neanche due metri quadrati tra il 1791 e il 1795: Giuseppe Balsamo palermitano conosciuto come Conte di Cagliostro. Un personaggio avventuroso amico del grande Casanova e come lui votato ad una vita rocambolesca e piena di mistero. Le sue passioni furono l’Alchimia e la Massoneria che conobbe fin da ragazzo. Appartenuto ad una nobile famiglia siciliana, poi decaduta, il giovane Cagliostro mostrò fin da subito un carattere inquieto e avventuroso che lo portarono ad iniziare l’arte dell’alchimia grazie ad uno zio.  

Cagliostro mago – Dipinto di Pierre Alexandre Wille

La sua colpa, rafforzata dalle molteplici vicissitudini in giro per l’Europa dove divenne noto per le arti magiche, per il suo ruolo di massone e fondatore persino di una nuova loggia di impronta egiziana, fu quella di essere ritenuto un impostore, pericoloso alchimista e personaggio coinvolto in loschi raggiri incluso il misterioso affare della collana di Maria Antonietta. D’altronde egli era uomo del  suo tempo, il 700 divenne infatti fucina di personaggi e riti iniziatici che coinvolsero moltissimi personaggi di spicco ma anche legati alle corti europee e ai politici contemporanei. Secolo di lumi, illuminazioni e grandi battaglie che portarono teste coronate sulla ghigliottina. Tra queste Maria Antonietta che come detto venne coinvolta in una vicenda “preziosa” in cui Cagliostro e il cardinale di Rohan ci rimisero la condanna e l’esilio da Parigi.

Così gli ultimi anni da uomo libero il nostro li trascorse a Roma dove cercò invano di convincere il Papa di riconoscerlo come massone. In realtà la condanna ad eresia fu presto guadagnata e la sua abiura gli salvò la vita in cambio del carcere ad ergastolo.

Sotto i suddetti baluardi restano scavate, alcune che non sono carceri, ma sepolture, anzi cantine o grotte, gemendovi tutto intorno uno stillicidio di acqua perenne…

da una lettera di Monsignor Lancisi in viaggio verso San Leo

Cagliostro arrivò ai piedi della fortezza il 20 aprile del 1791, e quando dalla carrozza vide l’imponente gigante di pietra che lo avrebbe inghiottito nelle sue segrete, non gli rimase che ascoltare il sinistro suono dei cancelli che si chiusero alle sue spalle. Calato da una botola nella cella, la sola vista che egli poté ammirare fu quella di una minuscola chiesetta…il nemico lo avrebbe accompagnato ogni giorno tra pazzia e dolore che dopo dura prigionia lo portarono alla morte.

cella di Cagliostro

Si spense nella cella il 26 Agosto del 1795 un pieno passaggio storico per l’intera Europa che, dopo varie rivoluzioni, avrebbe subíto una trasformazione alchemica verso l’età dorata delle democrazie.

Suggerisco la visita di San Leo in autunno per l’aria umida e nebbiosa in un contesto misterioso, oppure in primavera quando la meravigliosa natura che circonda la Valmarecchia si risveglia e dona incredibili panorami bucolici. Non dimenticate però di tornare dal vostro viaggio immaginario nelle segrete del castello, alla realtà culinaria e unica della Romagna ordinando una buona piadina farcita da mangiare sulla piazza antistante la piccola pieve del borgo incantato di San Leo.

La piadina romagnola è diversa in spessore a seconda di dove la mangiate, ma la ricetta rimane unica ed inimitabile: strutto, farina, sale, lievito i suoi ingredienti. Prosciutto crudo, rucola e scquacquerone di Romagna le migliori tre farciture.
Chissà se il Conte alchimista ne conosceva il segreto!
Buon appetito!